Rosario Fiorello

“Sento che non dovrebbe accadere”: Ons Jabeur, tra il dolore per Gaza e la necessità di far sentire la propria voce

ROMA — Ons Jabeur appare calma mentre esce dalla sala giocatori degli Internazionali BNL d’Italia, ma quella serenità è solo apparente. Ha appena concluso una telefonata con l’artista franco-tunisino El Seed —autore del suo logo personale—, una conversazione che le ha restituito un po’ di pace in un periodo pieno di tormenti.

La tennista tunisina sta attraversando una fase complicata. Un infortunio alla spalla ha bruscamente interrotto la sua stagione 2024. Anche se è tornata in campo quest’anno, il suo corpo non le dà tregua. A Miami ha abbandonato il match in lacrime per uno stiramento muscolare e, al suo ritorno ufficiale a Madrid, è stata eliminata al primo turno da Moyuka Uchijima.

Ma il dolore fisico è solo una parte del peso che porta con sé. Da febbraio Jabeur è ambasciatrice del Programma Alimentare Mondiale (PAM), e nelle ultime settimane ha vissuto con angoscia la notizia che l’organizzazione non riesce più a far arrivare cibo a Gaza. Il blocco ha generato una crisi umanitaria devastante, con milioni di persone intrappolate nella fame e nelle malattie.

“Siamo nel 2025, e faccio fatica a credere che questo stia succedendo”, ha confessato Jabeur visibilmente commossa. “Chiudere i confini e lasciare morire di fame dei bambini non può essere considerato normale. È crudele, è disumano.”

Le immagini viste nei notiziari e sui social l’hanno profondamente colpita. All’inizio si è sentita impotente, ma il lavoro con il PAM le ha dato la possibilità di trasformare la sua frustrazione in azione. L’anno scorso, durante un viaggio in Egitto, ha conosciuto una donna che gestiva una panetteria grazie al sostegno dell’agenzia. Un incontro che le ha cambiato la prospettiva.

“Vedere qualcuno che ha così poco donare tutto è stato profondamente ispirante”, ha raccontato. “Continuava a offrirmi ciò che aveva, perfino i dolci che stava preparando. Le ho detto: ‘No, tienili tu, ne hai più bisogno di me.’”

Nonostante quei momenti di speranza, la realtà rimane dura. Jabeur ammette di piangere spesso dopo gli incontri con il PAM. La violenza, la fame e la disumanizzazione le pesano nel cuore.

“Un bambino in Palestina ha chiesto: ‘Siamo umani?’. Pensa a quanto deve essere terribile per arrivare a farti quella domanda. È come vivere all’inferno.”

Come tennista, cerca di isolare le emozioni quando è in campo, ma questa volta è impossibile. La Palestina è nella sua mente giorno e notte. E alzare la voce ha un costo: è stata insultata, minacciata, etichettata.

“Mi hanno chiamata terrorista moltissime volte. Non riesco a capire: sto solo cercando di aiutare persone, soprattutto bambini, che stanno morendo di fame. È assurdo.”

Eppure, Jabeur non intende fermarsi. La sua fede, che negli ultimi tempi è diventata un punto fermo, la sostiene. A dicembre ha fatto l’Umrah alla Mecca con suo marito Karim Kamoun, un viaggio che sognava da anni.

“Il mio legame con Dio mi ha portato molta pace”, ha detto. “Alla Mecca ho pregato per la Palestina, per la mia famiglia, per la mia salute… È stato un momento spirituale unico.”

Anche nel tennis sente di avere ancora qualcosa da dimostrare. Ha fatto la storia come pioniera per il mondo arabo e africano, ma non sente di aver completato il suo cammino.

“Noi tenniste siamo ambiziose per natura. Sentiamo sempre che ci manca qualcosa. Ma ho fede che quel momento speciale arriverà.”

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